SISTEMA DIFESA
di Antonio Bettelli
L’opinione pubblica, la politica, la comunicazione nelle forme istituzionale e sociale si dimostrano improvvisamente inclini al tema della difesa. Come d’incanto, dopo avere per anni aborrito argomenti alieni al pacifico divenire delle società, manifestando persino insofferenza verso la dimensione militare – come se quest’ultima fosse di suo portatrice di male – il lessico sociale e politico si è arricchito di riferimenti rivolti alla necessità di promuovere e di sostenere le organizzazioni belliche delle nazioni europee.
Non vi è talk show televisivo che non dedichi gran parte del proprio tempo agli argomenti militari, lo fanno i telegiornali nel riportare puntualmente i bollettini sui conflitti e sulle crisi in atto, e ne parla anche la gente comune nei bar e agli angoli della strada. I think-tank geopolitici fioriscono, i Generali a riposo hanno voce nei più autorevoli consessi di dibattito pubblico, i comunicati della politica ricorrono a stereotipate terminologie tecniche di stampo militare.
Ben si sa che le parole con la loro forma e con la loro sostanza sono spesso usate per stimolare la discussione e per definire slogan. Questi ultimi, divenuti ripetitivi mantra lessicali, creano assuefazione ai temi del dibattito prescelto da chi gestisca per conto terzi la comunicazione non selettiva. La semantica dei tempi attuali, con i suoi lemmi e con le sue perifrasi, suscita quindi senso di preoccupazione rispetto a provvedimenti urgenti. Persino il tempo, che è dimensione immodificabile, è alterato dal senso d’impellenza, e lo è al punto che la percezione collettiva si conforma all’idea che le cose debbano cambiare subito oppure che non possano cambiare mai. I significati perdono di valore rispetto ai significanti.
Incomprensibile è inoltre il fatto che si sia arrivati al grave stato di urgenza a tre anni di distanza dalla deflagrazione della guerra russo-ucraina, a undici dall’annessione da parte di Mosca della Crimea e a diciassette dalla guerra nel territorio georgiano dell’Ossezia del Sud. Incredibile, forse risibile, che a ciò sia valsa la minaccia sventolata dalla nuova amministrazione americana di abbandonare l’Ucraina al suo destino, e con lei l’Europa, e che sia servito il cambio di rotta dell’alleato transatlantico per disilluderci sul senso di pace perenne. Eppure avremmo dovuto conoscere bene lo “Zio Sam”, così come avremmo dovuto percepire l’irrequietezza delle autocrazie di confine. Il sospetto dell’anomalia sarebbe dovuto nascere dai fatti accaduti in tempi anche relativamente recenti: l’accordo di Washington con i Talebani nel febbraio 2020, prodromico all’abbandono dell’Afghanistan da parte delle truppe NATO; l’esperienza irachena dell’amministrazione Bush, quando, con la complicità del governo di Londra, furono inventate cause inesistenti per promuovere l’occupazione di Baghdad e la caduta di Saddam Hussein; le cupe vicende del vicino oriente, tra le quali spicca il quinquennio abbondante di guerra intra-islamica in Siria, con Bashar al Assad inscalfibile, per poi veder capitolare il regime Alawita in pochi giorni sotto i colpi inferti dalla rinnovata invettiva jihadista capitanata da Al Jolani, capo salafita riconosciuto adesso dai governi dell’Occidente.
Non solo sdegno avrebbe dovuto stimolare l’efferato e barbaro attacco di Hamas ai kibbutzim alla periferia del territorio di Gaza, ma anche timoroso sospetto per lo svolgersi di dinamiche inadatte a un contesto caratterizzato dalla prossimità di governi che dicono di odiarsi. Come ha potuto l’organizzazione difensiva e d’intelligence più potente al mondo non avvedersene? E poi come si inquadra, in canoni di buon senso, la reazione ai danni della gente di Gaza sottratta alla possibilità dell’esodo, quest’ultimo mai negato neppure ai popoli più reietti della storia dell’umanità, e invece costretta entro confini divenuti per molti innocenti, o forse solo colpevoli di appartenere a un popolo, spazio cimiteriale. Com’è possibile? Dove sta la verità? Perché?
Si parla, dunque, di Difesa Europea, e si abbozza persino l’idea di un esercito unico, quindi di un’entità aggregata e posta a priori sotto unico comando e, forse, anche sotto unica bandiera. È bene, allora, cercare di porre qualche distinguo, di affinare la comunicazione, di uscire dalla grossolanità della semantica delle dichiarazioni dell’una o dell’altra parte. Cerchiamo, insomma, di dare forma a qualche concetto.
Un sistema di difesa può esprimersi secondo diverse soluzioni organizzative. Esso è per definizione l’insieme di più parti atte ad assolvere funzioni sì distinte ma interconnesse e interdipendenti. Al vertice del sistema serve un’entità tecnica e burocratica che garantisca unitarietà di comando e controllo, una testa pensante che concepisca e diriga le azioni, e che lo faccia attraverso definite e proceduralizzate attività di pianificazione, avvalendosi di sofisticate competenze in diversi campi, dall’intelligence, alla logistica, alla condotta operativa, emanando preventivamente o al bisogno approvate disposizioni attuative sotto forma di ordini; una testa che sappia, infine, esercitare il controllo, affinché l’esecuzione di quanto disposto corrisponda nel suo divenire ai piani e a ciò che la realtà prospetta. Quando poi la realtà diverga da quanto desiderato, diventa allora necessario, talora urgente, intervenire, rettificare, correggere, persino rifare tutto da capo. Questa testa pensante è fatta naturalmente di persone, ma anche di procedure e di sistemi atti alla comunicazione. È necessario parlare la stessa lingua, sia lessicale sia procedurale, ed è fondamentale disporre, stante il fatto che si opera in presenza di volontà ostile, di un ambiente riservato e protetto. Il tutto deve avvenire a diversi livelli di pianificazione e decisionali, vista la complessità e la magnitudo della materia. Si opera pertanto a livello strategico, cioè là dove si abbia la visione dell’insieme più vasto, in raccordo con la valutazione e la decisione politiche, ma anche a livello operativo e tattico, cioè in conformità a una ramificazione gerarchico-funzionale che deve porre in relazione di lavoro, con autorità riconosciuta, le entità subordinate, dal macro al micro, dai grandi spazi globali e quelli locali di dettaglio.
Non è solo ambito geografico, ma anche tematico, secondo varie dimensioni tecniche specifiche: vi è la dimensione cosiddetta terrestre, dove operano gli eserciti con i loro mezzi di movimento e di combattimento, vi è quella marittima, dove si muovono navi e sottomarini, si aggiunge quella aerea che regola l’ambito, cosiddetto terzo, del cielo e di tutto ciò che è staccato dalla solidità fisica della terra e del mare. Vi è poi la dimensione spaziale, cioè la porzione fisica multidimensionale al disopra e al di fuori dell’atmosfera, definibile anche come ambiente di relazione tra tutto ciò che – muovendosi nell’etere per l’azione di apparati e di strumenti anche orbitanti al di fuori della forza di gravitazione terrestre – possa condizionare e ledere. Nello spazio, ma anche incuneandosi tra i sistemi terrestri, marittimi e aerei, in ultimo anche tra i meandri animati delle nostre società, s’insinua un’ulteriore dimensione che potremmo immaginare informe. Si tratta di qualcosa di non visibile che avvalendosi del trasporto di particelle di energia non più solo elettromagnetica può agevolmente raggiungere, né più né meno come potrebbe accadere per un missile o per un razzo, i luoghi di vita e di lavoro degli esseri viventi, gli oggetti e i mezzi di cui ci si avvale per operare, alterando, se così si volesse, le circostanze di comportamento, le interazioni personali, le modalità di utilizzo della materia. Questa ulteriore grandezza, di grande attualità, è denominata dimensione cibernetica ed è anch’essa, al pari delle dimensioni sorelle più tradizionali, potenziale ambiente di offesa e di difesa.
Quindi, riepilogando, abbiamo le dimensioni terrestre, marittima, aerea, spaziale e cibernetica. Oggi si è soliti aggiungerne un’altra, denominata cognitiva, vale a dire l’ambito della percezione e della formazione delle idee, delle opinioni, ma anche dei sentimenti e degli stati d’animo. In questa sesta dimensione si interviene con la psicologia e con l’informazione, facendo di questi mezzi persuasivi un uso strumentale al perseguimento dei propri obiettivi, compresi quelli di natura ostile a danno dell’avversario.
A queste dimensioni (non si è fatto cenno alla tematica nucleare), provvede il sistema di difesa al quale ci stiamo riferendo.
Del sistema abbiamo finora accennato alla sua sola parte cerebrale, cognitiva, concettuale, neurale. Non possiamo però non riferirci anche al corpo, cioè agli organi vitali e alle parti strutturali che concorrono alle funzioni operative. Si tratta principalmente del complesso, articolato e costoso insieme di armamenti, equipaggiamenti e mezzi dediti tanto alla difesa quanto all’offesa – poiché un sistema di difesa deve anche saper offendere – ma anche alla protezione attiva e passiva, al movimento, alla creazione e alla rimozione di ostacoli, alle comunicazioni in radiofrequenza e satellitari, agli apparati informatici ed elettromagnetici. Una panoplia ampissima dipendente non più solo dalla meccanica, ma anche dalla elettronica e dalla gestione digitale dei dati, costantemente bisognevole di costosi aggiornamenti e soprattutto dotata di resilienza alla minaccia avversaria e di rusticità per operare in condizioni ambientali degradate ed estreme.
Agli organi vitali e alle parti fisiche del sistema occorre poi aggiungere tutto ciò che serve al metabolismo dell’organismo; in poche parole la logistica, per assicurare l’alimentazione, la disponibilità delle dotazioni – specie il munizionamento – il trasporto, la manutenzione, la cura sanitaria. Parliamo di volumi enormi di materiali che devono essere prodotti e accantonati, pre-posizionati se necessario nei luoghi più convenienti, mobilitati lungo una rete intermodale di collegamenti e di trasporti, anch’essi protetti dalle intenzioni ostili dell’avversario, animati da professionalità tecniche specifiche in vari campi dello scibile umano, gente quindi che sia essa stessa resiliente per poter operare con le proprie competenze in condizioni degradate, addestrata dunque a sopravvivere e in qualche misura a difendersi.
Tutto ciò non rappresenta, inoltre, un sistema a sé stante, indipendente, autonomo. Esso è infatti immerso nella società da cui trae le risorse umane, materiali e finanziarie. Il sistema necessita dunque di un apparato industriale convertibile rapidamente alle esigenze belliche, per assicurare la produzione di ciò che è necessario e la generazione di volumi di energia enormi; necessita di un apparato di mobilitazione e di reclutamento delle risorse umane, di una rete infrastrutturale civile – aeroporti, strade, ponti, gallerie, porti, vie di comunicazione terrestri, marittime e aeree – conforme alle esigenze dei mezzi e degli equipaggiamenti militari.
Persino il sistema sociale in cui l’organizzazione militare è immersa deve essere capace di adattarsi prontamente alle esigenze prioritarie della difesa, e ciò accadrebbe in termini di rinunce alle prerogative del vivere ordinario. È richiesta educazione per orientare i comportamenti sociali al bisogno, ed è opportuno sviluppare nel popolo una mentalità incline al cambiamento, alla rinuncia, anche alla sofferenza se le condizioni dovessero imporla.
Al centro del tutto, al centro del sistema, vi sarebbe l’uomo. Anzi l’insieme degli uomini la cui gestione collettiva è molto più complessa di quanto necessario per amministrare la singola individualità. Occorrerebbe dunque generare alla base del sistema un condiviso sistema di valori. La difesa comune dovrebbe dunque essere un principio al limite del sacrale (così non a caso definisce la difesa della Patria la nostra Costituzione), poiché i sacrifici richiesti per il suo esercizio e per la sua salvaguardia sarebbero enormi. Qualora questo condiviso sistema di valori esistesse – statuario, chiaro, conosciuto e compreso – esso non basterebbe. Servirebbero infatti anche la disciplina e l’ordine formale, cioè un insieme di regole e di autorità atte a definire e a circoscrivere i comportamenti secondo una definizione di etica per la quale i concetti di bene e di male non corrisponderebbero alle stesse esplicitazioni cui siamo abituati in condizioni di vita ordinarie e pacifiche. Vi sarebbero le sanzioni, anche severe.
Al di sopra del tutto, occorrerebbe disporre di un’assemblea politica autorevole, dotata di rilevanti poteri decisionali, rappresentativa della volontà degli Stati ai più alti livelli.
La NATO è in parte tutto questo. Lo è dal 1949, e da allora l’Alleanza Transatlantica elabora e corregge piani, impartisce direttive, sviluppa procedure, definisce esigenze e requisiti, studia e analizza il nemico potenziale, lo dissuade per mezzo dei suoi organi di comunicazione strategica e politica. La NATO è una scatola il cui involucro è strutturalmente costituito in via permanente, ma è una scatola vuota fintanto che gli Stati membri non decidono di mettervi qualcosa di proprio, facendolo in genere in ordine non solo alla necessità collettiva, ma soprattutto perseguendo interessi nazionali particolari. Ora, è comprensibile che, intimoriti da quanto sta accadendo, si parli di dare vita a una difesa europea, verosimilmente autonoma o forse integrata, non è chiaro (ma non credo sia possibile), con la NATO. Occorre tuttavia soppesare le intenzioni e, soprattutto, evitare di buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Sicuramente, allo sviluppo del concetto non possono bastare ottocento miliardi. Non basterebbe neppure otto volte ottocento!








