VERITA’ E TRADIZIONE
di Angelo Giubileo
La parola latina <ritus> deriva dal sanscrito rta; laddove r sta per <muoversi> e t <moto tra due punti>. Pertanto, la radice o suffisso rt indicava, inizialmente, tutto ciò che si muove tra due punti, secondo una legge universale (rta).
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L’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere (Parmenide). È: eterno, secondo la misura del tempo, di cui dice in specie Plutarco nel suo Iside e Osiride[1]; e indifferente, secondo la misura dello spazio, di cui, in base all’interpretazione di Giorgio de Santillana dice in specie Parmenide[2].
Questo e soltanto questo costituisce il dettato dell’essere o (il linguaggio del)la <verità>, in sé e per sé tautologica; alieno e aliena da ogni forma possibile di rappresentazione (immagine, numero, parola, ecc.).
E quindi, la tautologia è una proposizione sempre vera e, in quanto tale, non ha un simbolo dedicato. Ogni simbolo è invece proprio della tradizione e delle culture che ad essi fanno riferimento. E dunque: esiste una tradizione originaria comune alle diverse culture?[3]
In sintesi, (se) allora consideriamo la tradizione e la cultura hindu antecedente alle tradizioni e alle culture sia parsi che greca, secondo la distinzione operata in specie da Lokamanya B.G. Tilak nel suo Orione, è possibile ritenere che il detto dell’essere del cristianesimo autentico ripete il detto dell’essere originario della tradizione hindu.
Infatti il simbolo dell’AUM hindu viene riprodotto, essenzialmente, mediante le tre immagini del Dio-Figlio-Veglia (A), Dio-Spirito-Sogno (U) e Dio-Padre-Sonno profondo (M) e tutte e tre in quanto espressioni o manifestazioni dell’Atman ovvero l’unico Dio che è: il sé. Ciò a cui fa riferimento lo stesso motto delfico: conosci te stesso!
Il “sé”, che è comune ad ogni cosa, nel significato che Aristotele chiarisce perfettamente in un passo assai poco noto della sua Metafisica[4].
Pertanto, possiamo dire che sia il linguaggio della verità che quello della tradizione conducono, al conseguimento di quell’unico frutto che, come scrive Ananda K. Coomaraswamy, è “lo stato supremo” (ekhaha-bhuyam bhutva paramatam gacchatah)[5].
Così che, come direbbe ancora Parmenide: allora di via resta soltanto una parola che è. O meglio: le vie sono due, anche se entrambe, e cioè quella della verità e quella della tradizione, approdano infine a uno stesso stato, e cioè lo stato supremo di ogni cosa che è. A tale proposito, Coomaraswamy distingue infatti “tra la Via della Gnosi (jnana-marga) da una parte, e la Via della Dedizione (bhakti-marga) o Via dell’Amore (prema-marga) dall’altra: distinzione che allo stesso tempo corrisponde a quella tra Vita Contemplativa (il samkhya-yoga e il samnyasa della Bhagavad-gita) e Vita Attiva (il karma-yoga della Bhagavad-gita)”[6].
In definitiva, questo stato supremo consiste in “una deificazione nel senso di un’assimilazione mediante il consenso perfetto della volontà e una deificazione in cui si supera la distinzione tra conoscitore e conosciuto”[7].
E allora, una volta conseguito questo “frutto” o acquisita tale consapevolezza, qual è il de-stino[8] che può seguire?
Semplificando, occorre allora distinguere tra due Mondi o, meglio, tra due cammini che terminano in stati dell’essere che permeano la totalità del tempo e dello spazio e cioè due diversi stati dell’essere o mondi, l’uno Mondano e l’altro Oltremondano o Ario, da cui, rispettivamente, si fa ritorno e non si fa ritorno.
E tuttavia: Coloro che raggiungono la Sommità dell’Essere Contingente (bhavagra) sono, a rigor di termini, “salvati”, poiché la loro essenza (atmabhava, la sostanza individuale considerata un “naturare dello Spirito” o uno “stato di identità a sé” è indistruttibile (Abhidharmakosa, II, 45 b), sebbene permanga per loro la possibilità di rinascere quando il loro periodo di esistenza su tale piano dell’essere sia giunto al termine[9].
Angelo Giubileo
[1] … Nel fatto che la conoscenza divina possiede per sempre la realtà degli avvenimenti, consiste l’eccellenza di quella vita eterna che al dio appartiene: se la conoscenza e il pensiero della realtà venissero meno, l’immortalità non sarebbe più vita, ma tempo (I, 35 E).
[2] G. de Santillana, Prologo a Parmenide, in Fato antico e fato moderno, Adelphi 1993, pp. 81-153.
[3] Evitiamo qui la separazione e distinzione, senz’altro arbitraria, tra epoche e culture preistoriche e storiche, affidandoci piuttosto a una ricerca e analisi unitaria delle fonti senz’altro disponibili.
[4] I nostri progenitori delle più remote età (…) hanno tramandato ai loro posteri una tradizione, in forma di mito (…), secondo cui questi corpi sono dei e il divino racchiude l’intera natura. Il resto della tradizione è stato aggiunto più tardi in forma mitica … essi dicono che questi dei hanno forma umana o son simili ad alcuni degli altri animali … Ma se si dovesse separare il primo punto da queste aggiunte e lo si considerasse da solo – il fatto cioè che essi pensavano che le prime sostanze fossero dei – lo si dovrebbe ritenere un’enunciazione ispirata e riflettere che, mentre probabilmente ciascun’arte e ciascuna scienza sono state più volte sviluppate fin dove era possibile per poi perire di nuovo, queste opinioni, assieme ad altre, sono state preservate fino a oggi come reliquie (…) dell’antico tesoro” (Metafisica 1074b). Il brano è tratto da G. de Santillana-H. von Dechend, Il mulino di Amleto, Adelphi 2000, p. 183.
[5] A. K. Coomaraswamy, La tenebra divina, Adelphi 2017, p. 435.
[6] Ibidem, p. 427.
[7] Ibidem.
[8] Il termine è qui usato con il significato che gli ha attribuito Emanuele Severino: lo stare dell’essere e l’essere dello stare medesimo.
[9] La tenebra divina, op. cit., p. 437.








