L’ESSERE DEL PROPRIO STARE
di Antonio Bettelli
“L’essere del proprio stare”, come Paola Bergamo e Angelo Giubileo definiscono la condizione dell’Europa nell’articolo “Un Mondo Diviso in Due”, pubblicato il 28 luglio dal Nuovo Giornale Nazionale – condizione espressa dalla metafora del “vaso di coccio tra due vasi di ferro” – altro non è che l’effetto degli avvenimenti che hanno segnato la storia sociale e politica del nostro continente nel secolo scorso e nei conseguenti e immediati sviluppi di inizio millennio.
Ammesso che nel periodo precedente, diciamo nell’Ottocento, esistesse una qual sorta di centralità europea – e forse non c’era per due ordini di motivi: protagonismo divisivo delle potenze imperiali dell’epoca, Gran Bretagna in primis, e assenza di credibili estremi per la demarcazione dello spazio di centralità (Stati Uniti e Cina erano ancora immature rispetto all’odierno ruolo di potenze globali) – gli esiti delle due guerre mondiali combattute nel secolo cosiddetto “breve” hanno decretato lo smantellamento dell’idea di Eurasia – e in ciò di Europa – intesa come ambito di medietà tre est e ovest, favorendo invece una configurazione di potere che ha privilegiato gli Stati Uniti ponendoli al centro della geopolitica globale. La centralità americana appare tuttavia oggi minacciata, forse in realtà controbilanciata, da un Oriente via via più solidamente incardinato su Pechino, e appoggiato, in virtù della naturale continuità geografica del territorio, sul baricentro euroasiatico. Da possibile elemento regolatore, la vasta aria transcontinentale formata da Europa, Russia e Asia Centrale, è divenuta il ventre molle del mondo bipolare in riconfigurazione, e tale certamente rimarrà fintanto che la Russia sarà separata dal contesto politico e amministrativo europeo. A guardare bene le cose, si tratta di una condizione di grande convenienza per il duopolio USA e CINA: un binomio che trova nel campo euroasiatico non solo lo spazio equilibratore delle reciproche relazioni, ma anche l’area di sperimentazione di soluzioni globali e, se necessario, di scontro.
Chi noi Europei dobbiamo ringraziare per tutto ciò?
Vi è certamente il destino-risultante delle forze sociopolitiche che hanno costruito il potentato economico e finanziario del Nuovo Mondo, nel tempo divenuto preponderante per ricchezza e per forza militare (a tal punto da ritenere ineludibile il depauperamento europeo).
Il processo di predestinazione è stato favorito nelle sue prime fasi di sviluppo dal ruolo non lungimirante giocato da alcuni Stati del Vecchio Continente, tale da favorire, nel perseguimento di logiche unilaterali, l’assimilazione dell’Europa da parte del nuovo protagonista globale. Il tutto a sistema con la chiara volontà americana di uscire dallo stato d’isolamento nel quale la Grande Guerra aveva confinato Washington e di perseguire, invece, il ruolo di potenza economica e geopolitica mondiale al quale il destino assegnava l’emergente potenza transatlantica. Quella visione, concepita tra le polveri della disgregazione degli imperi europei (francese, prussiano, austroungarico, britannico, russo e ottomano), ha avuto come assioma portante la ferma intenzione statunitense d’interdire sul nascere qualsivoglia asse di forza che si formasse tra est e ovest europeo. A riguardo, basterebbe rileggere le teorie dell’Heartland e del Rimland elaborate dal britannico Halford McKinder (1861-1947) e dall’americano Nicholas John Spykman (1893-1943) a cavallo del passaggio di secolo tra Ottocento e Novecento per comprendere che gli effetti prodotti dalle due guerre mondiali e poi dalla guerra fredda altro non sono che l’affermazione nei fatti del postulato di controllo dell’Eurasia da parte di Washington e, conseguentemente, del ruolo egemonico statunitense all’approssimarsi del giro di boa del millennio. Con i loro elaborati – accreditati dai più autorevoli consessi di studio dell’epoca e divenuti efficace strumento di pressione sulle politiche estere dei rispettivi Paesi – i due studiosi, accreditati professori rispettivamente di Oxford e di Yale, profilavano il controllo dell’Eurasia (Heartland) come mezzo per il dominio del pianeta (Spykman affina il concetto subordinando il controllo dell’Eurasia a quello del Rimland europeo e asiatico).
Quanto in atto oggi, così come proposto dalla metafora di Bergamo e di Giubileo, cioè quella dell’essere del proprio stare, conferma il completamento del ciclo geopolitico iniziato con il Novecento. La NATO, che è forse la più autorevole se non unica vera alleanza politica e difensiva del momento, nata al termine del secondo conflitto mondiale e poi indiscussa regina delle silenziose battaglie combattute durante la Guerra Fredda, altro non è che la “longa manus” del potere militare e politico statunitense nel nostro continente. I ricatti dell’amministrazione Trump all’Europa, oltre che al mondo intero, lo dimostrano con eclatante chiarezza.
La fase di espansione egemonica dell’America ha, tuttavia, esaurito la propria spinta trasformatrice e manipolatrice. Secondo una logica di contrapposizione, utile a riordinare il caos della frammentazione, sempre esistente alla periferia dell’impero quando quest’ultimo raggiunge l’apice della sua espansione, un nuovo corso sta avendo inizio: un corso che ridefinirà, seppur con turbolenza come gli attuali conflitti bellici dimostrano, un riassestamento del pianeta in ordine a una ridefinita bipolarità. Un nuovo balance of power, dunque, cioè uno stato di cose che sarà foriero di stabilità nel futuro di medio termine.
Nel consesso europeo occidentale, la posizione dell’Unione di Bruxelles sul conflitto russo-ucraino conferma l’asservimento delle nazioni della casa comune agli Stati Uniti. A poco servono le posizioni “volenterose” di Francia, Germania e Gran Bretagna, atte ancora una volta a conferire un’impronta personalistica e non europea alla crisi e alla sua possibile soluzione. La smania militarista di Bruxelles sembra prestarsi a un gioco nel quale le pedine nazionali muovono secondo interessi particolari e non, invece, in accordo a un progetto strategico unitario per la definizione di un’alternativa europea.
Noi italiani, poco avvezzi alla eventualità di una chiamata alle armi (ma su questo aspetto e sugli esiti del recente sondaggio del CENSIS sul tema “gli Italiani e la Guerra” occorrerebbe dedicare un capitolo a sé stante), cerchiamo di fare il nostro. Il governo nazionale manifesta una posizione di ferma fedeltà a Washington, usando accenti che in talune espressioni risultano dissonanti rispetto alla media dei toni europei. Una posizione di preveggenza rispetto allo stato ineludibile di un’appartenenza destinata a diventare, nel mosaico bipolare che va a mano a mano delineandosi, ancor più marcata. La faccenda russo-ucraina ne è, di quel mosaico, una delle tessere fondamentali, poiché l’Eurasia, nonostante le sue sventure, è ancora oggi il baricentro del pianeta.








