DUE TORTI NON FANNO UNA RAGIONE
di Antonio Bettelli
Sono giorni di forte turbolenza politica a livello internazionale, tanto nei rapporti tra le potenze maggiori, quanto per gli effetti che da ciò che è in atto si riverbereranno, con beneficio o con danno, sugli attori di minor ruolo della scena geopolitica in divenire. I coprotagonisti della complessa dinamica, in taluni casi comparse silenti, subiranno gli esiti delle scelte operate dagl’interpreti maggiori e vedranno così tracciato, almeno per un po’ di tempo ancora, il proprio destino. Il copione sarà dunque scritto e imporrà a ciascuno la rispettiva parte. Accadrà autoritariamente, cioè in ragione di una forza intrinsecamente in pectore agli attori di maggior potenza.
Guardando agli incontri di questi giorni, molti commentatori parlano di consessi che evocano, per la portata delle discussioni intavolate, una riedizione degli accordi di Yalta; altri preconizzano la definizione di un nuovo ordine mondiale, sovvertitore delle tendenze che avevano illusoriamente propugnato l’idea di un mondo globalizzato incline al libero scambio economico, culturale e sociale; altri ancora evocano, proprio per il fallimento di quel tentativo, lo scontro, appellandosi a presunte possibilità di successo militare, il tutto in ordine a rapporti di forza che validerebbero l’opzione del mantenimento di una posizione inflessibile, costi quel che costi.
In tutto questo, il diritto internazionale non è più la trama portante della regia, salvo poi vederne invocato il valore quando questo risulti funzionale al progetto particolare di ciascuno; il multilateralismo non è più contemplato nei processi decisionali, anche se alla fine del percorso di dialogo, quando si addiverrà a una soluzione pacificatrice, sarà proprio un organismo sovranazionale ad aprire l’ombrello giuridico per sancire la soluzione pattuita; i muri tra est e ovest e quelli tra nord e sud, rinnovate barriere ideologiche, sembrano ormai definitivamente eretti, o poco mancherebbe al loro completamento, e lo sarebbero in ragione di un’etica profetizzata che ambisce a ridefinire i concetti di bene e di male, proprio come se bastasse un muro fisico o metafisico a separare i buoni dai cattivi, e i cattivi dai buoni, a seconda del lato da cui si osservi ciò che sta al di là.
Nell’indefinito marasma del dialogo – e chissà quanto tempo ancora occorrerà per definirlo – alcuni di coloro che stanno sul nostro lato del muro lanciano appelli per la crociata cristiana del terzo millennio. “Dio, Patria e Famiglia” ne è uno degli slogan ricorrenti. In realtà non si comprende con esattezza chi dovrebbe essere destinatario delle mire neocristiane. Forse sono inviti rivolti all’ortodosso est, feroce nel propugnare la stessa visione contro i nazismi delle province occidentali dell’impero vetero-zarista; oppure all’islamico sud, che riversa a settentrione, lungo le rotte terrestri balcaniche e marittime del Mediterraneo, le proprie masse di diseredati; ovvero al circolare Medioriente, che con i suoi viziosi vortici perturba le terre di Palestina e d’Israele, ma anche, in una sorta di allargamento centrifugo, lo spazio intra islamico occupato da sunniti e da sciiti, quello culturale di Teheran e di Riyadh, quello patriarcale appartenente per tradizione millenaria ai monoteismi giudaico-cristiano e musulmano, infine quello esteso agli orizzonti planetari di Occidente e di Oriente.
Secondo questa visione, “Dio” è tanto il Cristo rivelato o atteso quanto il profetizzato Allah; la “Patria” è quella di ciascuno, disegnata secondo le tradizioni locali e in ordine a un riconoscimento di diritto internazionale assoluto o parziale, sancito o agognato; la “Famiglia” è quella stanziale e sempre più nucleare delle urbanizzate aree europee, ma anche quella nomade dei deserti e delle radure africane, così come quella più prolifica del caleidoscopio rurale delle steppe asiatiche. Ognuno ha un proprio “Dio”, una propria “Patria” e una propria “Famiglia”; taluni posseggono queste certezze da tempo, altri ne propugnano la realizzazione e il possesso, alcuni non possono neppure pensarle.
Cercando di riordinare il tempo scomposto che accompagna la mia marginale e irrilevante osservazione, preoccupato, credo al pari di altri, per il disordine delle affermazioni pronunciate dai grandi della terra (ma sono poi veramente così grandi?), allibito nel continuare a osservare la scia di dolore che con enfasi crescente inquina e insanguina molte società a noi vicine – così da ritenere che presto anche la nostra comunità non potrà esserne esente – mi sovvengono alcune domande: qual è il valore della vita? Chi è in grado di invocare giustizia senza farsi sopraffare dal dubbio di provocare ingiustizia? Chi crede di rivendicare un torto subito senza correre il rischio d’infliggerlo ad altri?
Poiché se è vero che la ragione è di tutti, almeno così parrebbe ascoltando le opposte versioni, il torto cresce in maniera esponenziale. A farne le spese sono sempre i soliti.
Il Cristianesimo, quello scritto nei Vangeli, vero primato di amore tra gli uomini, non erige barriere e non separa, bensì tollera, accoglie, perdona e dialoga. Chi se ne fa scudo per propugnare nuove crociate ideologiche contro il diverso, contro l’anormale, contro il nemico, persino contro il cattivo, è ignorante o in malafede. Credo che la seconda opzione sia in molti casi la più diffusa. Falsi profeti ve ne sono tanti, e tante sono le profezie che adombrano la vera cultura cristiana.
Due torti, anche di segno opposto, non fanno una ragione.








