WAKE-UP EUROPE
di Antonio Bettelli
Tra isolazionismo e interventismo, che come gli effetti di una droga provocano dipendenza e deprivano il soggetto succube di autonomia decisionale, il Medio-Occidente è più che mai in balia degli eventi indotti dal cambio della politica americana.
Nello spazio medio-occidentale, il consesso europeo, identificato parzialmente con l’unione comunitaria di Bruxelles, è intimorito dalla possibilità di perdere i crediti finora ottenuti quale contropartita per l’allineamento con Washington, ed è ancor più spaventato di non riuscire a gestire con le sole proprie forze l’astensione dalle puntuali somministrazioni di autorevolezza fornite dal “pusher transatlantico”. L’Europa, procede quindi in crescente stato di confusione, muove le proprie idee in ordine sparso, cede spazio alle iniziative pseudo-narcisistiche dei leader europei che si ritengono più potenti, compone improbabili geometrie di pensiero, lancia gravose proposte finanziarie, stigmatizza il voltafaccia americano, propugna la difesa dell’Ucraina a oltranza seppur priva di una sostanziale base di autorevolezza.
Anziché riunire le forze, ridefinire i concetti cardine, verificare la validità di quanto finora realizzato, specie come componente esistenziale della NATO, con lo stesso valore di reciprocità e di bilateralità transatlantica che è proprio degli Stati Uniti, l’Europa predilige facili ma dispendiose uscite di propaganda, fughe in avanti, controreazioni isolazioniste.
Accade allora che la vera e unica affermazione di cui si percepisce la mancanza, e di cui invece occorrerebbe fare umile esercizio, non è quella militare, tanto sbandierata di questi tempi, quanto quella degli errori commessi e mai riconosciuti dagli attuali leader europei.
Ecco dunque che i proclami accattivanti sulle spese per la difesa non colmano, caso mai dilatano, il vuoto intellettuale della politica europea, tanto nelle premesse quanto nel metodo e negli obiettivi. Si vuole controbilanciare l’ipotetica minaccia del nemico con il denaro, non comprendendo che la separazione tra la disponibilità finanziaria e la finalizzazione di un concetto fondamentalmente rappresentativo dello spirito democratico e liberale, cioè la “Difesa dell’Europa”, non disgiunta da credibili potenzialità applicative, è enorme. Il mero dato finanziario non può esserne la premessa, caso mai ne è la conseguenza. Ho l’impressione, pertanto, che si tratti solamente di un approccio tecnocratico avvezzo alle procedure commissariali di Bruxelles, e che sia un mero susseguirsi di proclami pseudo-ideologici sui valori di libertà e di democrazia che generano – per il solo fatto di essere formulati senza una chiara identificazione della minaccia alla quale rispondere e privi della capacità strutturale di generare, di conseguenza, eseguibili piani strategici e operativi – vera insicurezza.
Il denaro, se mai vi fosse, può di per sé fornire sicurezza e pace? Può farlo più del valore morale dei popoli e della autorevolezza dei loro consessi istituzionali e politici, nazionali e comunitari? È forse questo il presupposto etico dell’Europa pensata e definita dai Padri fondatori? Dove risiede l’orgoglio della tradizione europea, lo spessore dell’umanesimo millenario, della filosofia, dell’arte dell’elaborazione concettuale, del dialogo di cui i grandi pensatori sono guida spirituale oltre che razionale? Dove si trova il primato della comprensione, della compassione, della ragione?
Vengo dunque alla proposta di costituire un fondo per il riarmo dell’Europa, il cosiddetto REARM EUROPE (piacciono così tanto queste espressioni social-friendly). Ottocento miliardi, forse più, che andrebbero a detrimento della spesa su fronti virtuosi dediti allo sviluppo delle società, incardinati, invece, su una frettolosa corsa al riarmo per la quale prevarrebbero con molta probabilità le logiche speculative degli interessi industriali, senza un progetto che individui a monte i requisiti operativi, ricerchi le necessarie sinergie, eviti inutili sovrapposizioni, armonizzi gli sforzi e, soprattutto, renda necessario ciò che può facilmente divenire pernicioso strumento al servizio della amoralità.
Chi è il nemico? Qual è a minaccia? Di che portata? Quali i mezzi da contrastare? Chi deve difendersi e da cosa? Con quale catena di pianificazione, decisionale, di comando e di controllo? Quale uso vorremmo fare di questi strumenti di difesa che progetteremo e produrremo nei prossimi cinque anni? In ordine a quale principio d’impiego rispetto alla sacralità della Difesa alla quale la nostra Costituzione fa riferimento? E per quale Patria?
La Difesa dell’Europa è vero fine oppure pretesto?
Sono interrogativi ai quali il dibattito politico nazionale ed europeo dovrebbe dare urgente risposta, e dovrebbe farlo con l’obiettività e con la chiarezza proprie di chi abbia il dovere di operare scelte vitali. La scena della politica è invece colma di atti di perentorietà, dall’una e dall’altra parte, tra chi evoca una minaccia macroscopica della Russia, disconoscendone la natura geopolitica ed economica, oltre che la storia, e chi minimizza l’evidenza della grave violazione commessa da Mosca ai danni dell’Ucraina. Su tutto impera la superficialità della comunicazione d’immagine, costruita su note di linguaggio preconfezionate e sull’evocazione di conquiste militari ai danni degli Stati democratici che appartengono a tempi sì recenti rispetto al corso delle nostre generazioni ma che sono, al tempo stesso, lontanissime per via del rapido mutamento della tecnologia e della comunicazione. Oggi la guerra si combatte in modo ibrido, disarticolando le economie, influenzando la finanza, manipolando le informazioni, alterando il senso comune delle cose. Lo si fa anche palesando la minaccia fisica in contesti geografici marginali e di prossimità attraverso l’esibizione della violenza che gli strumenti bellici moderni sono in grado, spaventosamente, di generare.
Nei riferimenti aforistici, siamo spesso soliti citare Sun Tzu, ma esistono negli annali della storia orientale anche quelli di un altro e meno famoso generale e filosofo cinese, Sima Ranju, che coniò, nel periodo cosiddetto della “Primavera e dell’Autunno” – siamo nella Cina dei sovvertimenti autonomistici operati dai signori locali nella regione del Luoyang intorno al V secolo prima di Cristo – alcune significative definizioni sulla guerra, oggi raccolte in un testo dal titolo “Precetti di Guerra”. Tra queste vale forse la pena di ricordare la seguente: “… sebbene gli stati antichi fossero grandi, inevitabilmente essi perirono quando divennero appassionati della guerra”.
Lasciamo la guerra, con i suoi piani e con i suoi progetti, ai militari, questi ultimi in rigorosa subordinazione alla volontà politico-istituzionale.
I politici facciano invece di tutto per evitarla – la guerra – e soprattutto dimostrino di non amarla.








