DEMOCRAZIA: GLI ANTICORPI DELLA LIBERTÀ
(2 giugno 2025 – di Antonio Bettelli)
Fascismo e antifascismo, due termini che hanno segnato la storia dell’Italia in uno dei periodi più tragici per le comunità nazionale e internazionale. Un periodo nel quale l’essere umano è riuscito nell’intento di rilasciare energie spaventose, tanto nel bene quanto nel male. Energie che hanno segnato il popolo italiano nella carne e nello spirito.
Il 2 giugno 1946, con la nascita della Repubblica, una volta esaurito il percorso del fascismo nella sua versione istituzionale dall’ottobre 1922 al 25 luglio 1943, con l’infausto epilogo della Repubblica Sociale fino alla liberazione dell’aprile 1945 (ma forse, in realtà, si era trattato di un cammino iniziato già un secolo prima con il Risorgimento), il secondo conflitto mondiale trovò finalmente la sua risoluzione militare, sociale e politica. Seppur sia ancora oggi difficile dichiarare il pieno successo di quel cambiamento – forse perché il compimento di qualsiasi progetto umano, anche il più nobile, non è mai realizzabile in modo definitivo – di fatto, l’esito referendario del 2 giugno 1946 stabilì un nuovo corso per il nostro Paese. L’Italia decise di porre un sigillo sulla storia breve ma significativa dello stato unitario monarchico nato nel 1861 e di girare le pagine di un nuovo capitolo della vita nazionale.
La Costituzione scritta dai padri della Repubblica è, nei suoi principi fondamentali, emblema di quella volontà di cambiamento, e le posizioni sancite dai primi dodici articoli della Carta Costituzionale non lasciano dubbi sull’intento. Si tratta di uno Stato orientato all’inclusione, alla tolleranza, alla giustizia sociale, all’eguaglianza dei diritti fondamentali come il lavoro e la libertà di pensiero e di espressione. Uno stato che ripudia la guerra, pur ammettendo il ricorso alla forza militare previa rinuncia di parte della propria sovranità, a patto che si realizzino condizioni di pari dignità tra le nazioni nel promuovere e nel porre in essere iniziative volte alla stabilizzazione e alla pace.
Il 2 giugno 1946, la Monarchia venne ritenuta corresponsabile, con giudizio tutt’altro che plebiscitario, della vicenda politica del fascismo, forse anche di non aver mai abbracciato senza remore la causa nazionale, rimanendo ancorata a nostalgie eccentriche rispetto a un territorio e a un popolo che guardavano a sud e al Mediterraneo. Quella doveva essere la direzione di movimento per compiere un vero percorso di unificazione nazionale.
L’Italia, gran parte di essa, versava in stato di povertà e di arretratezza rispetto ad altri paesi europei, il Meridione in particolare. Il retaggio di un Ottocento arcaico, ancor più gravato dagli effetti di una guerra perduta malamente, persisteva in tanti settori della vita pubblica, inducendo nella politica e nella gestione della società logiche di opportunità locali che allontanavano anziché avvicinare, separavano anziché unire.
Sul piano internazionale, la sconfitta della Germania, sancita dagli accordi di Yalta e di Postdam, volti a raggiungere una pace stabile attraverso una sparitizione di potere tra est e ovest del mondo, cioè tra Stati Uniti e Unione Sovietica, lasciava una voragine morale e materiale in Europa. La Francia, la cui coesione nazionale era stata compromessa dalla nascita di due governi coesistenti durante il periodo bellico – stentava a ritrovare un ruolo guida. La Gran Bretagna, mai del tutto europea, aveva attraversato il conflitto bellico con maggiore coesione, beneficiando sia della marginalità insulare rispetto al continente sia di un retaggio di rispetto da parte della Germania nazista derivante dai crediti maturati da Londra nei precedenti secoli di potere imperiale.
Nel nuovo disegno europeo, gli effetti della divisione globale non tardarono a riverberarsi sul continente. Anzi, essi trovarono nella debole Europa un facile terreno di applicazione e di scontro. Da una guerra combattuta sul campo in modo cruento si passò a un conflitto silenzioso consumato dietro le quinte della politica ufficiale. Era la “Guerra Fredda”: una contrapposizione tra est e ovest inedita nelle sue modalità di pianificazione e di esecuzione. Una sfida tra le superpotenze attuata con il ricorso a forme ibride di lotta: controllo e influenza delle politiche nazionali, piani anti insurrezionali segreti, governi ombra, finanziamenti illeciti, formazioni paramilitari addestrate in modo occulto, servizi di sicurezza deviati, terrorismo e violenza politica, destabilizzazione sociale. Questo fu l’ambiente nel quale, in Italia più che altrove a causa della vulnerabilità strutturale del nostro paese, si cercò invano di assimilare e di superare il contrasto tra fascismo e antifascismo. La dualità di principio tra un’idea di Stato corporativo rivelatasi sbagliata nella sua applicazione e quella che nel movimento di resistenza al nazifascismo aveva trovato la forza spirituale e materiale per addivenire al riscatto dell’Italia continuò a dividere gli animi.
Nel nostro paese, la contrapposizione assunse in origine la forma politica di una destra estremizzata in un partito che non esitava a manifestarsi erede del regime preesistente e di una sinistra parimenti periferica nel cui titolo la parola “comunista” era il termine centrale. In tal modo, con una polarizzazione caratterizzata da simili retaggi ideologici, si mistificava il concetto della fisiologica e necessaria contrapposizione entro i confini della politica democratica. Destra e sinistra sono infatti irrinunciabili per regolare lo svolgimento del dialogo politico. Nel bilanciamento tra il mantenimento egoistico di privilegi derivanti dalle diseguaglianze, di cui la destra-destra diviene fautrice, e il perseguimento demagogico di egualitarismi assoluti, di cui la sinistra-sinistra è retore, il dialogo tra gli estremi è fondamentale per alimentare il giusto spazio della temperanza e dell’equilibrio, cioè della vera libertà. Libertà che non può, dunque, diventare tramite di disuguaglianza per il privilegio di taluni, ma neppure uguaglianza che divenga ambito di presunto stato di diritto a scapito della libertà comune.
Come detto, questo luogo di mezzo, regno della democrazia, non può compiutamente identificarsi se gli estremi che lo contengono sono corrotti nella loro definizione. Se destra è fascismo e sinistra è antifascismo, allora significa che non vi è spazio per la democrazia. Democrazia non è fascismo, ma essa non è, per sua stessa etimologica definizione, antifascista. Non si dovrebbe, infatti, negare ciò che non si può essere, così come non si dovrebbe affermare ciò che si è per emblematico e incorruttibile principio. Quando lo si fa, allora si specula strumentalmente per fini non in linea con lo spirito democratico. Se vi è ancora bisogno di antifascismo, allora la democrazia in cui la necessità è percepita diviene luogo di contraddizione, cioè non è (o non è più) vera democrazia. Democrazia è democrazia e basta, nulla di più e nulla di meno.
Alla luce di tutto ciò, non è sorprendente che ancora oggi, dopo ottant’anni, il dilemma tra le due forme antagoniste non sia ancora risolto, e come il dibattito tra i fautori dell’una e dell’altra tesi riaffiori spesso nel confronto politico e pubblico, specie in occasioni di ricorrenze particolari.
Si specula, talvolta per interessi mediatici, in altri casi per interessi di parte, sull’affermazione della negazione: “sono antifascista”, o sulla negazione della negazione: “non dichiaro di essere antifascista”. Ne deriva a dir poco confusione tra i cittadini comuni, e di certo il popolo italiano non ha ancora dimostrato maturità nel superare definitivamente la dicotomia, antinomica con la democrazia, dei due termini.
La politica corrotta nella sua definizione si appropria dell’una o dell’altra forma per denigrare la controparte, anziché guidare il paese verso una riconciliazione che nei fatti attualizzi il corso politico avviato con la “Liberazione” e con la nascita della Repubblica.
Viene da domandarsi perché accada tutto questo ancora oggi? La risposta non è facile da individuare, e forse solo la sociologia e la psicologia potrebbero in qualche misura abbozzare una risposta. Porsi la domanda, anche in assenza di una risposta, è tuttavia importante elemento di prevenzione dai mali che potrebbero affliggere e persino corrompere lo stato democratico.
Se ciò non avvenisse, cioè se non ci si ponesse il problema della pretestuosa contraddizione tra una destra fascista e una sinistra antifascista, più in generale tra fascismo e antifascismo, allora potrebbe accadere, anche inconsapevolmente, di non credere più nella democrazia.La democrazia deprivata del consenso interno è come un organismo vivente sottratto dei suoi anticorpi. Ben sappiamo che in assenza di sistema immunitario il corpo umano è destinato a perire. Allo stesso modo, la democrazia può sopravvivere solo per auto sussistenza. La democrazia non può essere imposta.
Viva la Repubblica Italiana!







