Centro Studi MB2

Monte Bianco-Mario Bergamo, per dare un tetto all’Europa ETS

Scenari economici e Scenari di guerra

SCENARI ECONOMICI – SCENARI DI GUERRA

La politica, come il pacifismo, è fatta di parole, spesso gravate da ipocrisia. La guerra invece, come il militarismo, è costituita di fatti gravati da crudo realismo.


Per cinquant’anni, nel pieno della guerra fredda, i rapporti di forza si sono estrinsecati in un continuo braccio di ferro tra le potenze mondiali: ma sempre, tuttavia, con la piena consapevolezza della necessità di preservare innanzi tutto la pace, almeno quella complessiva grazie a dispositivi militari efficienti sempre fiancheggiati da un arsenale nucleare di deterrenza. Fu l’idea di un uso “equilibrato” del terrore, in una perenne competizione globale fatta di numerose guerre per procura le quali –per quanto durissime a livello locale e regionale– non hanno mai minato la pace nei territori dell’Occidente.

Se Karl Marx sosteneva che la guerra nasce da determinazioni economiche e sociali e svolge un ruolo che trascende la volontà degli uomini al potere che l’hanno dichiarata” un altro Carl, Von Clausewitz, prima di lui ma come lui tedesco, sosteneva che “la guerra non è che la politica con altri mezzi […]è quindi uno strumento politico, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”. Le due affermazioni non si escludono, anzi si integrano perfettamente. Significa che quando la politica non riesce più ad affrontare le determinazioni di natura economica e sociale necessarie per il buon vivere allora la guerra ne può diventare la continuazione, seppur perversa, nel tentativo di conseguire un “ordine” per il quale la politica abbia invece fallito. Allora dobbiamo cercare di fare una analisi il più possibile obiettiva dei fatti che stanno accadendo nel mondo e se sia possibile incidervi.

 

Risorse economiche, risorse belliche, etica e cultura militare

Probabilmente in Europa Occidentale non siamo ancora giunti al punto di considerare le condizioni sociali così inadeguate al soddisfacimento dei bisogni della collettività, mentre forse esiste una parte “malata” dell’economia che potrebbe perseguire il crudo realismo della guerra come strumento per rigenerare i mercati di rispettivo interesse, anche se appare prematura questa soluzione estrema. Gli investimenti per la difesa o per la tecnologia e gli equipaggiamenti militari del resto hanno uno dei più alti ROI (Return Of Investment), quasi pari a 3: cioè un euro investito genera un ritorno di quasi 3 euro.

 

Osservando alcuni dei più importanti scenari globali, sembra che in tempi “celeri”, ma è ovviamente più facile a dirsi che a farsi, dovremo armarci sempre di più, riconvertendo anche parte della nostra industria civile in industria bellica. Ciò significa che dobbiamo entrare nell’ordine di idee di sviluppare una economia di guerra: parole che nel 2022 furono proferite dall’allora Presidente del Consiglio Mario Draghi. Una economia di guerra porta con sé annessi e connessi, e presuppone, a monte, di poter disporre di una cospicua forza economica sostenuta da forza lavoro specializzata e da grandi risorse energetiche.

 

Senza trascurare i fattori umani e spesso purtroppo personali di chi, al potere nei vari livelli, vede nel disordine la via di realizzazione anche della propria causa di interesse individuale, giova ricordare che l’Italia ha nel proprio DNA costituzionale il rifiuto della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali ( art.11 della nostra Costituzione), e che nel 2004 ha persino deciso di  sospendere  il servizio militare  di leva con la legge n.226 del 23 agosto. Sospendere, non abolire, e quindi alla bisogna si potrebbe reintrodurre la leva obbligatoria, e presumibilmente con estensione alle donne anche in virtù del principio di parità di genere.  Per il nostro Paese diviene quindi necessario riflettere, alla luce dei nuovi scenari globali, cosa più ci si addica e se sia sufficiente la forza militare di cui disponiamo: ottimi professionisti ben addestrati, vere e proprie eccellenze nel loro settore. Però non passa inosservato l’allarme “rosso” lanciato dall’Ammiraglio Cavo Dragone, attualmente Capo di Stato Maggiore della Difesa:

 

“Servono almeno 10.000 soldati in più. Continuerò a chiederli fino a che non mi cacceranno!”


L’Ammiraglio Cavo Dragone in verità non rischia certamente di essere sollevato dal suo alto incarico, in quanto   appena  designato per l’avvicendamento come Capo del Comitato Militare della NATO.

Poiché le parole pesano come macigni e gli scenari globali possono trasformarsi in qualsiasi momento in scintille incendiarie mondiali, ecco che le parole di Cavo Dragone ci riportano subito a quelle proferite da Macron circa il possibile invio di truppe in Ucraina, oltre agli armamenti con i quali da due anni viene rifornito l’esercito di Kiev.

Il Presidente francese, checché se ne dica, non è tipo che parla a caso anche se talvolta ci sono espressioni che vengono pronunciate forse più per logiche di equilibrio interno o per redivivo “spirito napoleonico”. Naturalmente tale affermazione ha scosso molti, noi italiani per primi, davvero poco inclini alla guerra sebbene forniti di ottimi reparti di combattimento. E del resto la NATO nel suo insieme, seppur a fortissima trazione anglosassone, nasce con natura difensiva e deve tener fede a questa caratteristica.  Su un piano di principi etico-militari, avendo deciso di schierarci con l’Ucraina, potrebbe accadere che l’aiuto debba estendersi alla risorsa che forse più di altre inizia a scarseggiare tra le fila delle forze armate ucraine, cioè gli uomini e il personale. La domanda potrebbe essere se sia non solo giusto ma anche possibile continuare a preservare le nostre energie e certezze continuando a foraggiare la guerra combattuta da altri, privi non solo di equipaggiamenti e di munizioni, ma anche di capitale umano da impiegare a scopo bellico. È evidente che si tratta di uno scenario non auspicabile che esulerebbe dai principi fondanti dell’Alleanza, suonando come una forzatura, tuttavia non impossibile.

 

È quindi importante riflettere sulle risorse umane che occorrerebbero qualora anziché trovarci innanzi ad una auspicabile de-escalation dovessimo affrontare gli effetti di una deriva opposta. A quest’ultima parrebbe drammaticamente giovare l’ultimo attentato alla Crocus City Hall a Mosca, un nome questo che paradossalmente richiama alla mente più i teatri dell’Occidente che quelli di tradizione moscovita; espressione dunque del gergo d’Occidente, prima tanto accolto in terra russa ed ora così inviso a Putin che ci rinfaccia, a piè sospinto, stile di vita, comportamenti e valori quasi fosse impegnato in una “crociata moralizzatrice” per la quale la Russia vorrebbe ergersi a propugnatrice e paladina.

Si è parlato spesso, e con tono di sconcerto in questi due anni, della guerra  tornata in Europa, nel cuore del continente e quindi alle porte di casa nostra. Ma giova ricordare che una guerra ben più vicina a noi rispetto a quella in Ucraina fu combattuta tra il 1991 e il 2001 nella ex Jugoslavia, determinando la dissoluzione dello stato balcanico un tempo governato dal Maresciallo Tito. L’Occidente intervenne non solo con l’invio di armamenti e di munizioni ma anche con ingenti operazioni aeree. La guerra fu cruenta e si registrarono episodi di grande efferatezza: eccidi, tentativi di genocidio, pulizie etniche. All’Italia, quell’impegno comportò la necessità di sostenere costi particolarmente alti, basti pensare che solo per le missioni dell’Aereonautica Militare si spesero 65 miliardi e mezzo di lire dell’epoca (quasi 34 milioni di euro) al quale vanno aggiunti i costi per lo schieramento navale che, oltre al Garibaldi con il suo gruppo aereo, includeva anche la fregata Zefiro. A tutto questo aggiungendo il dispiegamento logistico in supporto della NATO.

Rispetto alla necessità di intervenire in futuro anche con l’invio di uomini in sostegno dell’Ucraina, ipotesi che sarebbe in contrasto con la natura del trattato nord-atlantico, è indubbio che la NATO stia proseguendo nel percorso del suo rafforzamento ad est, non solo come reazione ai gravi accadimenti in terra ucraina, ma anche in applicazione della strategia dell’Alleanza pubblicata nel 2019. In quel documento fondamentale, viene infatti ipotizzata l’esigenza di un rafforzamento massivo per la deterrenza in vista di eventuali aggressioni russe e per la difesa dell’area euro-atlantica. Questa strategia paventa, e c’è da augurarsi sia solo uno scenario estremo, attacchi contemporanei di Mosca su numerosi fronti: dall’Artico fino alle profondità europee, all’Oceano Atlantico, al Mar Nero.

Quanto agli USA, indipendentemente dalla partita elettorale che si concluderà a novembre e il cui esito constateremo dopo l’apertura delle urne, siamo stati comunque avvisati che è l’Europa che deve pensare maggiormente alla propria difesa. È più che evidente quanto non sia facile né veloce trasformare gli Stati europei in nazioni guerriere o quantomeno inclini al combattimento.  C’è chi non lo è per DNA e chi, pur essendolo come la Germania, deve, nella sostanza, ricominciare da capo.  Ad alcuni la prospettiva di un ritorno allo spirito bellicoso incute qualche sconcerto, specie guardando al passato e alla storia non molto lontana, tuttavia un richiamo a simili eventualità oggi pare pressoché inevitabile. In effetti Berlino e Mosca conservano l’un l’altro e vicendevolmente un fascino ambiguo, una reciproca influenza, anche dell’elemento socialista che si è fuso e profuso al momento della riunificazione tedesca. Dopo la Seconda guerra mondiale il riavvicinamento tra Germania e Russia è avvenuto con ampia collaborazione industriale ed energetica, non diversamente da quanto accadeva tra Germania e Cina in quanto a Import-Export. Per i fatti occorsi al Gasdotto Nord Stream e Nord Steam2 e come conseguenza della guerra in Ucraina, la Germania versa oggi in uno stato di grande crisi.  La locomotiva tedesca, rallentando, genera una serie di difficoltà che ricade a cascata su tutta l’Europa; una crisi che peserà molto nel nostro paese riducendo la produzione e gravando sul nostro PIL. Tanto più alla luce del fatto che gran parte dell’industria italiana del Nord e del Nord est è la prosecuzione dell’industria tedesca, per effetto dell’interconnessione e della interdipendenza tra le filiere.

Nei giorni successivi all’attacco all’Ucraina, la Germania ha deciso lo stanziamento di un fondo di 100 miliardi per riarmare  e riorganizzare le proprie forze armate. Ma Berlino in fondo è orfana del suo passato, è stata privata di quella sovranità militare che le era consustanziale e il suo pacifismo di oggi, compatibile con la solidarietà europea ed atlantica, è pure espressione di grande saggezza.

Le Forze Armate italiane, l’Esercito soprattutto, hanno bisogno di un vero processo di rigenerazione, soprattutto di una chiara definizione della “cultura militare” da parte della politica nazionale (anche se la Costituzione, a riguardo, parla chiaro) ed europea. Nel nostro caso, ancor più, l’apparato militare ha bisogno di rinnovarsi eticamente, proprio alla luce dei principi costituzionali, e ha necessità di mezzi di combattimento moderni e di capacità adeguate all’impiego di risorse a elevato contenuto tecnologico (molte capacità sono state perdute o non più provate sul campo, anche solo dell’addestramento, negli ultimi decenni).

Naturalmente, tutto questo accade mentre l’Europa parla di green economy e transizione energetica. Ma, con gli scenari che abbiamo innanzi, appare piuttosto difficile coniugare e intensificare la produzione di armi e di munizioni senza poter contare su una adeguata forza lavoro, a meno che non si vogliano sfruttare i migranti che così “sfuggirebbero” alla segregazione nei nuovi lager in terra d’Europa e che potrebbero venir impiegati nella nuova industria bellica.  Ma non si può intensificare l’industria bellica senza disporre di adeguate risorse energetiche e senza un coerente orizzonte temporale.

 

Scenari dal Mondo

Veniamo quindi ad alcuni scenari, considerando che l’Europa sembrerebbe trovarsi ormai al centro di una tempesta perfetta. Gli Stati europei hanno continuato a fare ciascuno il proprio interesse, spesso boicottandosi a vicenda. Del resto, gli interessi dei popoli mediterranei poco si coniugano con quelli dei paesi dell’Atlantico del Nord: i punti cardinali e le rotte commerciali non sono fatto trascurabile, pesando gravemente anche sulla possibile evoluzione della costruzione europea.

 

Indo Pacifico – Taiwan

Taiwan è il più importante centro di produzione per microchip.  Di recente l’isola ha ottenuto il primato per una nuova tecnologia destinata all’intelligenza artificiale che potrà aumentare potenza di calcolo ed efficienza energetica. È chiaro che un blocco di questa produzione metterebbe l’Occidente in grande difficoltà. Su Taiwan pendono, come una spada di Damocle, le rimostranze della Cina e il fatto che, anche per diritto internazionale, esista davvero una ed una sola Cina. Sappiamo però anche che per la conformazione dell’isola di Taiwan non sarebbe affatto facile per il governo di Pechino condurre un’azione armata per riportare l’isola sotto la propria sfera d’ influenza. Nel frattempo, gli USA stanno facendo rientrare in madrepatria le proprie aziende per produrre in proprio i microchip fondamentali nella moderna tecnologia e che, pur con le inevitabili lungaggini, si sta cercando di fare lo stesso anche in Europa. Una notizia meno divulgata è la grande ricchezza di petrolio attorno a Taiwan. La EIA (Energy Information Administration) stima che il Mar Cinese Meridionale contenga giacimenti di idrocarburi pari a circa 11 miliardi di barili di petrolio e 190 trilioni di metri cubi di gas naturali.

 

Cina
Giova ricordare le parole di Napoleone: “La Cina è un mostro che dorme, quando si risveglierà la faccia del mondo sarà cambiata”.

La parola mostro probabilmente attiene alla prosa del tempo, ma certamente  molto è cambiato nel mondo da quando la Cina (di cui il principio di “Armonia” di confuciana memoria merita più di una riflessione in ambito geopolitico e geo-economico) è diventata un player di assoluto livello. Artefici del grande progresso e sviluppo economico della Cina siamo stati noi occidentali, spesso mai sazi, che attraverso la globalizzazione e delocalizzazione ne abbiamo favorito il boom economico. Quest’ultimo si basa per lo più sull’Export. Anche la crescita della Cina, non diversamente dalle altre parti del mondo – perché in crisi è il mondo intero (!) per effetto delle complesse vicende in atto nello scacchiere mondiale –è piuttosto rallentata. I dati non sono più a due cifre, ma la sua produzione e la sua crescita economica rende la Cina oggi il più importante e temibile competitor degli Stati Uniti. Per restare tale, per non vedere flettere insostenibilmente la sua curva di crescita, la Cina – che ha un immenso territorio connotato da profonde disuguaglianze e poiché non tutto è espressione di ultra-modernità tecnologica come a Pechino o a Shangai – necessita di mantenere e di intensificare i suoi scambi commerciali. A ciò si aggiunge, come ulteriore elemento di “precarietà, il fatto che per produrre quanto le serva per il commercio, da cui trarre la ricchezza da reinvestire su sé stessa, la Cina necessita di enormi quantitativi di energia, quella stessa di cui non dispone in proprio. In buona parte l’energia gliela fornisce la Russia con gas e petrolio. Ecco quindi che la partnership con la Russia non è più solo economica, bensì strategica. Tuttavia, gli scenari di guerra sono di ostacolo a chi necessiti di intensificare i propri scambi.  Le contese territoriali, quindi, possono essere, in un fase in cui l’espansione economica è essenziale, un vero e proprio boomerang. Il gigante asiatico, nella cui percezione e concezione del mondo insiste la memoria degli antichi fasti imperiali, suscitando nostalgia proprio come avviene in Russia, lo sa bene: per questa consapevolezza Pechino è combattuta tra continuare una politica di espansione “mimetizzata” come ai tempi del “basso profilo” di Deng Xiaoping o, diversamente, accelerare sulla strada della “diplomazia del lupo guerriero” tracciata da Xi Jinping.

 

Ucraina
Senza voler ripercorre la storia degli eventi che si sono succeduti e delle grandi  occasioni mancate, tra queste ultime giova ricordare l’ipotesi di una Russia cooperante con la Nato (nel 1994 Mosca aderì al partenariato per la Pace – PfP), assistiamo oggi a una Russia intollerante e aggressiva che poco a poco ha iniziato a riprendersi con l’uso della forza territori di valore strategico; una Russia quindi irrispettosa del diritto internazionale, come l’annessione della Crimea ha dimostrato nel 2014, anticipando l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022. Senza voler cadere negli equivoci, con il rischio di sottostare agli effetti propagandistici della comunicazione inscenata dalle parti contrapposte,  perché è più che evidente che anche la propaganda faccia parte della guerra, preme sottolineare come il rischio grave per l’Ucraina sia quello di venir frazionata, di vedere il proprio indebitamento, già grave, aumentato esponenzialmente, priva com’è di armamenti necessari per la propria difesa e di capitale umano da impiegare a scopo bellico (secondo un rapporto, il rapporto tra soldati ucraini e russi è di 1 a 4, dato che potrebbe essere nel frattempo ulteriormente sceso). L’Ucraina resta tuttavia un territorio ricco di risorse naturali nel proprio sottosuolo, potendo contare su carbone, minerale di ferro, gas, petrolio, argilla e terre rare, per un valore complessivo di decine di trilioni di dollari.
Se il Cremlino dovesse riuscire ad annettere tutto il territorio ucraino finora conquistato, Kyiv perderebbe definitivamente l’accesso a quasi due terzi dei suoi giacimenti.
Non è forse un azzardo, quindi, l’ipotesi che la guerra, certo di libertà, abbia soprattutto connotazioni economiche. L’integrità di buona parte del territorio dell’Ucraina la trasformerebbe in importante centro energetico e futuro  polo di produzione per gli armamenti dopo la ricostruzione.  Il che sembrerebbe proprio corrispondere al modo di far politica suggerito dagli schemi di Carl Von Clausewitz e di Karl Marx.

 

Medio Oriente

Nota dolens perché se è vero che la Democrazia si difende sotto le mura di Gerusalemme” come ben diceva Ugo La Malfa è altrettanto vero che dopo l’orrore del 7 ottobre stiamo assistendo a scenari inquietanti con una escalation che potrebbe infiammare ancor più l’area mediorientale. Ma in quest’area – dove si gioca la sopravvivenza dello Stato di Israele, dove si trascina la questione palestinese, dove s’incrociano le tre grandi religioni monoteiste – vero è che si gioca un’importante partita economica: quella della Via del Cotone, alternativa alla Via della Seta. Sono proprio i Patti di Abramo ad aver aperto le porte alla Via del Cotone, ed ecco allora che anche l’attacco di Hamas assume, per mandanti e complici, una particolare connotazione, così come gli assalti degli Houthi a Suez che ostacolando il commercio alle navi dell’Occidente agevolano invece quello delle navi cinesi.  A rafforzare le visioni deterministiche degli scenari di guerra, giova ricordare che Gaza è a sua volta ricca di gas. Se, nel nome, Gaza significa “feroce/forte”, destino vuole che fonetica e onomatopea, non solo occidentale, rimandino proprio all’idea del gas.

 

BRICS
Un occhio attento, sebbene sintetico in questa trattazione,  meritano i paesi della BRICS che, nel loro insieme, formano quasi i 2/3 dell’umanità. Si tratta di un blocco molto importante dal punto di vista demografico ed economico
(valgono indicativamente il 32% del PIL mondiale) e che, come organizzazione intergovernativa, crea un sistema di cooperazione tra economie emergenti (talune evidentemente già emerse come la  Cina e l’India), esercitando pressione economica sui paesi occidentali allo scopo di accreditarsi come polo alternativo ai G7 (che tuttavia genera un PIL pari al 60% mondiale) e al FMI, cercando una de-dollarizzazione del sistema degli scambi. Ma accade, ed è bene sottolinearlo, che nella BRICS vi siano alcune discordie tra due cooperanti divenuti competitors: la Cina con la Via della Seta e l’India con la Via del Cotone. Quest’ultima, l’India, è la inoltre la democrazia più popolosa del mondo, per lo più accerchiata da autocrazie, e che non disdegna affatto, anzi coltiva, i propri rapporti con l’Occidente. Nell’ultimo periodo, a squilibrare i giochi interni alla BRICS è stata anche l’elezione in Argentina di Javier Milej che, a dispetto della sua chioma “rockettara” e della sega elettrica eletta a simbolo della sua campagna elettorale, è un esperto economista e ha dichiarato di non voler più aderire alla BRICS, di voler dollarizzare la sua economia e di abolire la Banca Centrale Argentina. C’è chi lo ha definito un “anarco-capitalista”, sta di fatto che con la sua scelta ha sottratto un tassello piuttosto importante alla BRICS, così come il ripensamento dell’Arabia Saudita va a indebolire la forza di questa organizzazione intergovernativa. Se l’Arabia Saudita, da decenni un partner fidato di Washington e dei suoi alleati, non dovesse più aderire alla BRICS, questo altererebbe di non poco il così detto Nuovo Ordine Mondiale a favore dell’egemonia occidentale. Lo Yuan è ai suoi minimi (152 per dollaro). Anche per questo due giorni fa sono sembrati interessanti i toni usati da Xi Jinping nell’incontro con i CEO delle più importanti aziende Usa, evidentemente nel tentativo di ricucire i legami logorati dalle tensioni geopolitiche e commerciali tra le due maggiori economie. Il leader cinese ha osservato che il rapporto Usa-Cina, la relazione bilaterale tra i due colossi, è la più importante del mondo e che il fatto che Cina e Stati Uniti abbiano una relazione cooperativa o conflittuale influisce sul benessere del popolo cinese, di quello americano e sul futuro dell’umanità. Il rispettivo successo dei due paesi è una opportunità l’uno per l’altro”- queste le parole di Xi Jinping e proseguendo – “finchè entrambe le parti si vedranno come partner nel rispetto reciproco, coesistendo in pace si avranno risultati vantaggiosi per tutti e le relazioni Cina-Usa miglioreranno”.

 

Transizione energetica europea e conclusioni.

Ci sono conti che comunque non tornano. Per esempio ad oggi il prezzo del gas è diminuito rispetto al tempo dell’invasione russa dell’Ucraina, però noi continuiamo a pagare l’energia con costi molto alti, impoverendo la popolazione e rendendo sempre meno competitiva la nostra produzione. Siamo anche stati indotti, su spinta del “New Green Deal” sposato dall’Europa, ad aver una giusta visione di rispetto all’ambiente, per preservare quel delicato ecosistema di cui noi siamo parte e che viene messo a repentaglio dai cambiamenti climatici e dalle catastrofi che ne scaturiscono. Tuttavia, le decisioni prese dall’Europa appaiono imposte a tappe troppo forzate (nel 2035 solo BEV; no biocarburi e/o sintetici) con un orizzonte temporale difficilmente sostenibile che azzera 50 anni di vantaggio competitivo, determinando crisi di intere filiere produttive, vulnerabilità strategica e dipendenza quasi esclusiva dalla sola fonte di energia elettrica. Una sostenibilità, quindi, tutta da dimostrare, e che assume le sembianze più di una transizione ideologica che ecologica davvero necessaria. Basta guardare il planisfero e comparare i paesi inquinatori con quelli d’Europa che si avviano a riconvertire il proprio sistema energetico, e quindi produttivo, per comprendere che molte delle scelte rispondono più a una logica di business che a quella di vera conservazione dell’ambiente. Al di là della difficoltà di una reale transizione per l’abbandono di idrocarburi e motori termici, basterebbe osservare cosa avviene nelle miniere dove si estraggono, ad esempio, le materie prime per la costruzione delle stesse batterie per le macchine elettriche. Il costo ambientale è altissimo (carbon footprint, environmental impact, etc.) e produce una relazione per cui l’auto elettrica determina un costo molto più alto dell’auto a motore termico (2,5 vs 1).

Le miniere, energivore e insalubri, impiegano manodopera infantile, ponendo importanti domande di tipo etico. L’Occidente europeo, nel nome dei valori fondanti della propria stessa coesione/unione, dovrebbe interrogarsi e fare a riguardo, una seria valutazione.  Se eolico e fotovoltaico, come pure la cattura dell’idrogeno dal moto ondoso, sono interessanti fonti energetiche alternative, vero è che esse non sono adatte e adattabili a tutti i territori e non sono in grado di fornire energia stabile, quest’ultima di reale necessità per l’industria. Per abbandonare le fonti fossili, in una transizione che voglia essere economicamente e socialmente sostenibile, ci si dovrà affidare necessariamente al nucleare di nuova generazione, che non può essere implementato in tempi brevi e che necessita di superare la narrativa e la ritrosia legata al gravissimo incidente di Cernobyl. Tuttavia, troppo spesso ci si dimentica che la centrale ucraina luogo del grave incidente conteneva graffite e che quindi non era una centrale a mero ed esclusivo scopo civile, e il cui uso era promiscuo con le finalità militari. Si deve altresì ricordare che l’altro grande disastro, quello di Fukushima, è ascrivibile a un difetto di progettazione della centrale, incurante dell’incognita terremoti e maremoti, ben frequenti in Giappone. Quest’ultimo incidente ha di fatto causato 1 solo morto e 16 feriti e resa necessaria l’evacuazione di 184.000 persone. Ma già nel 2022 il Giappone, nonostante l’incidente subito e anche a causa dell’aumento del costo delle materie prime, ha annunciato che è impensabile rinunciare al nucleare.

 

*Il mio più sentito e particolare ringraziamento vanno al Generale Antonio Bettelli e al Professor Piero di Nepi, per i numerosi spunti e le informazioni che hanno reso possibile l’analisi e la trattazione dei temi.
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Paola Bergamo

Venezia, 2 aprile 2024